Tutto ebbe inizio una mattina dell’anno 335 a.C., sotto il cielo terso dell’Attica, ad appena qualche chilometro dalla celebrata città di Atene.
Polibio e il suo socio in affari Fedro erano in viaggio con il loro seguito di carri, colmi di merce pregiata, e di schiavi. Stavano per concludere delle importanti vendite. Essi, dopo aver affrontato una lunga traversata, poche ore prima erano finalmente sbarcati nel porto del Pireo. Ormai li circondava una fitta vegetazione.
Durante un momento di tregua dalla sollecita marcia, i due mercanti si isolarono dalla comitiva discutendo animatamente di una gravosa questione. Per preservare il riserbo delle confidenze, si scostarono dal gruppo dei fidati schiavi quel tanto sufficiente a sottrarsi dalla loro attenzione.
Il fermento era dovuto al presunto furto di un monile di cui alcuni servitori accusavano Maysun, un loro giovane compagno. Da tempo erano sorti dei dissapori perché questi aveva coraggiosamente denunciato le abituali prepotenze esercitate dagli schiavi più anziani.
La sensibilità che caratterizzava Polibio gli imponeva di acclarare per bene i fatti. Egli sapeva perfettamente fino a quali estremi potesse giungere l’acredine dei prepotenti. Aveva constatato come simili individui fossero soliti attribuirsi dei diritti usurpati senza alcun ritegno. Ingiustizie di tal fatta erano inconciliabili con i princìpi che animavano la sua coscienza.
- Ti ripeto che non intendo negare a Maysun il diritto di difendersi dall’accusa che gli è stata rivolta. Potrebbe trattarsi di una calunnia, - sostenne Polibio, scontrandosi con la rozza superficialità del partner. La stessa con cui spesso aveva dovuto fare i conti.
- Già. Ma non è la prima volta che lo sorprendiamo a rubare. Dobbiamo punirlo come merita. Gli farò infliggere trenta frustate. Penso che possano bastare. Vedrai che in futuro si asterrà dal compiere simili misfatti, - ribatté Fedro, soffocando il buon senso che gli gridava dentro.
- In realtà ho l’impressione che il presunto furto sia una messinscena. Sospetto che i suoi accusatori vogliano vendicare dei torti subiti. È necessario sentire le parti in causa per chiarire i fatti. Mi rifiuto di mortificare un uomo senza prima dare luogo a un giusto processo, - insistette Polibio con una fermezza che si conciliava con il suo abituale modo di agire.
- Come sempre vuoi negare l’evidenza. È chiaro che è colpevole, - non si piegò Fedro.
- Alla luce di quali elementi puoi affermare ciò? Tu al suo posto, prima di ricevere delle vergate sulla schiena, vorresti essere ascoltato, - lo incalzò Polibio, attingendo a tutta la sua saggezza.
D’un tratto un famelico gatto, insidiando un topo, si lanciò dalla cima di un albero verso un cespuglio.
Il tonfo che ne seguì interruppe per sempre il discorso intrapreso.
Esso rimase sospeso nel vuoto di quella giornata che era destinata a ridisegnare la loro esistenza. Di ciò essi ne furono consapevoli non appena si voltarono.
La loro attenzione fu catturata da una massiccia struttura in metallo che si poteva scorgere tra una massa di fogliame secco e legno rattrappito.
Di fronte a questa scoperta rimasero di stucco.
Essa esulava da tutto ciò che aveva sempre fatto parte del loro mondo. Dall’interno del misterioso congegno filtrava, attraverso una sorta di stretto sportello semiaperto, un fascio di luce sconosciuto. I due mercanti non ne avevano mai visto uno simile in tutta la loro esistenza, neanche nei più reconditi sogni. All’istante dimenticarono persino dove si trovassero. E con le mani che tremavano per l’emozione, s’impegnarono a liberare l’ingresso dal fogliame e dai rami. Esplose dentro di loro il violento impulso di scoprire in cosa si fossero imbattuti.
Quindi con ogni precauzione spalancarono lo sportello.
Entrati intrepidamente nell’oscuro dispositivo, ebbero la sensazione che in quell’angolo di terra il tempo si fosse come fermato. Non riuscivano a venir fuori dallo stupore che li annebbiava. Che quanto avevano ritrovato abbandonato nel mezzo della campagna fosse una diavoleria prodotta dagli spiriti del male? Si diceva che, quando dominavano le tenebre, simili entità fossero solite flagellare quelle sciagurate terre. E cosa significavano poi quei numeri che essi leggevano sopra un pannello animato da una arcana luce? Che sancissero la fine della loro esistenza?
Fedro, come suo solito, non rimase a lungo inerte. E cominciò ad azionare senza criterio le strane manovelle che campeggiavano su una parete. Così egli cercava di attenuare l’inquietudine che scaturiva dall’assoluta incapacità di trovare una risposta a innumerevoli domande. Polibio da parte sua percepì il pericolo che una simile iniziativa rappresentava. E senza giri di parole lo redarguì:
- Fermati! Vuoi forse attirare il castigo degli dèi con la tua noncuranza?
- Voglio solo capire cosa la sorte ci ha fatto trovare in questo sentiero sperduto…
Polibio sapeva che quello era l’irresistibile desiderio di entrambi. Ma occorreva essere prudenti. Mentre Fedro persisteva ostinatamente a sfidare la sorte, insinuando le mani laddove non avrebbe dovuto, il compagno fu folgorato da quanto rinvenne alle sue spalle.
Si trovò davanti centinaia di indefinibili oggetti che non aveva mai visto prima, neanche nelle più fantasiose immaginazioni. Si trattava di una serie di ordinate pile di arnesi che a uno sguardo attento, per via delle scritte che recavano impresse, potevano essere identificati come dei manoscritti. Per un momento egli vacillò davanti a quella sequenza infinita di scritte in latino che peraltro riusciva a decifrare, essendo originario di Roma; aveva ancora nitidi i ricordi della sua giovinezza trascorsa proprio fra i sette colli della città eterna, prima di dedicarsi al commercio in giro per il mondo.
Per lunghi secondi ignorò perfino chi egli fosse.
Non riusciva a leggere nella realtà che gli era franata addosso. Poco dopo invitò il socio a voltarsi per renderlo partecipe della straordinaria scoperta, avvenuta all’interno di qualcosa che era, se possibile, ancor più misterioso.
- Cosa… - le parole si spezzarono sulle labbra di Fedro. I suoi occhi rimasero spalancati. E il respiro gli divenne incerto.
Avvinti dalla superstizione che li animava, cominciarono a pensare di essere vittime di un diabolico sortilegio. Proprio quando si apprestavano a fuggire da ciò che essi per istinto riconobbero essere la porta d’accesso all’Ade, l’ingresso della macchina infernale si chiuse automaticamente. Quindi qualcosa si azionò facendo sperimentare ai due uomini il peggiore dei loro incubi.
Si produssero oscillamenti e potenti vibrazioni. Risuonarono sordi boati e vibranti echi. Si alternarono rapidamente un calore intenso e un freddo pungente. Finché infine tutto cessò, lasciando nondimeno senza fiato gli sventurati.
Essi si guardarono in faccia convinti che il congegno li avesse proiettati nell’oscurità infernale, alle cui porte avrebbero incontrato il mostruoso cane Cerbero, e Minosse, Eaco e Radamanto avrebbero giudicato la loro condotta terrena.
Dunque, nello spazio di una manciata di secondi ogni cosa si era quietata fra quelle metalliche pareti che essi, solo un attimo prima, pensarono fossero prossime a comprimerli in una funerea morsa. Con un pur labile senso di sollievo ricominciarono a percepire il proprio ansimante respiro. Il loro cuore batteva più che mai vorticoso nel petto, parendo sul punto di esplodere e schizzare ovunque tutto il purpureo sangue che fra le sue pieghe scorreva. A quel punto entrambi chiusero gli occhi come se, così facendo, potessero fermare il corso dell’indefinibile giornata che stavano vivendo. Ancora quell’esperienza inquietante non aveva espresso la sua sentenza.
Polibio richiamò l’attenzione del compagno sulla luminosa scritta che risaltava poco al di sopra delle manovelle. Essa di colpo si era come aggiornata:
- 335 avanti Cristo, - lesse con un filo di voce, guardando alla sua sinistra, e poi continuò seguendo con gli occhi l’enigmatica didascalia: - 27 Anno Domini… Cosa mai può significare tutto ciò?
- A mio avviso sto per sperimentare la collera degli dèi per tutte le frodi che ho praticato a scapito di miserabili che meritavano tutt’altro, - azzardò Fedro, assaporando già il gusto amaro che accompagna il castigo delle proprie colpe.
- C’è solo un modo per scoprirlo. Si tratta di andare incontro al nostro destino uscendo fuori da questo congegno infernale… - e, mentre diceva ciò, Polibio, esitando, allungò la sua incerta mano verso la manopola dello sportello. O essa avrebbe restituito loro la libertà o, con un riverbero orribile, li avrebbe consegnati a eterni supplizi.
Gli sventurati si chiedevano quale spettacolo terrificante li avrebbe travolti oltrepassando quella labile soglia che ancora li proteggeva dal repentino materializzarsi dei loro più inquietanti incubi. Forse che li attendeva ansioso di punirli Plutone, il temuto dio dei Mondi sotterranei, il quale ne avrebbe sancito la condanna a mille anni di atroci sofferenze fra fiamme ustionanti, lacerazioni fisiche, visioni orribili, miasmi soffocanti e una disperazione senza tregua? Certamente questa era la credenza divulgata dall’insigne Platone in relazione ai più indegni fra gli uomini, prima che ne avvenisse la reincarnazione in un nuovo involucro corporale e traesse così origine un altro ciclo vitale. Quale maledizione era dunque piombata su di loro proprio quel giorno, che prima dell’ora fatidica, pareva scivolare quieto e docile come tanti altri?
L’indugio non poteva protrarsi oltre.
Copyright © 2017 - Davide Fresi
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